venerdì 11 gennaio 2008

Il battito (*)

"Ma, quando soffiava il vento del nord, fustigando la campagna con le sue raffiche e le sue tempeste di neve, Ismaele si rifugiava nel castello. Aveva ottenuto dal fattore la chiave della biblioteca; era una stanza dal soffitto basso, piena di libri e di grandi divani di cuoio nero; si rincantucciava in una poltrona vicino alla stufa che ronfava dolcemente; in ciascun angol, su un basamento, c'era un busto di marmo dai tratti calmi, gli occhi vuoti. Ismaele leggeva. Sui vetri, la neve tracciava disegni di foreste meravigliose, merletti complicati, piante e fiori di sogno; niente era comparabile a quella dolcezza, al silenzio di quella stanza chiusa in cui vivevano i libri.
Ismaele leggeva come ci si ubriaca; emergeva dalle sue letture con la testa in fiamme, turbato, stordito, come svegliato all'improvviso nel mezzo di un sogno. C'erano poesie che non poteva ripetere senza piangere e altre che lo riempivano di un sentimento simile al terrore. E quando si ricordava delle sue canzoni, gli sembravano così miserevoli, così goffe, così rozze e stupide che si sentiva infinitivamente vergognoso, umiliato e infelice. Tentava di perseverare, di imitare tutti quei poeti dalla voce d'oro, ma uno scoraggiamento infinito si impadroniva di lui; le parole, che un tempo catturava come docili uccelli, volavano via, lntano da lui, diventavano nemiche e piene di mistero ostile. Tutte quelle rime precise, quel ritmo di cui «loro» si servivavno con agio come di uno strumento facile e sicuro, quella capacità che, da un semplice accostamento di parole, creava una melodia particolare, mille volte più ricca e più varia della musica, tutto questo lo schiacciava, povero ragazzo, gli faceva venire lacrime di rabbia, di imptenza e di disperazione. Non capiva come la principessa e il barin avessero potuto ascoltare senza ridere le sue strofe barbare, con le loro assonanze primitive, le loro perifrasi rozze, le immagini crude; non si rendeva conto del fascino che aveva per quelle persone disincantate la sua poesia spontanea di bambino prodigio.
Rifiutava con disgusto l'arte popolare che lo aveva ispirato senza che lui se ne rendesse conto; si sforzava di imitare Puškin, Lermontov, gli stranieri, gli antichi, e naturalmente non ci riusciva e si dibatteva tra le rime ribelli come un folle che volesse suonare le melodie di Wagner con uno zufolo. Allora si mise a leggere opere di critica, di metrica, immaginandosi nella sua semplicità che la poesia si possa imparare, come la matematica, a forza di applicazione e di buona volontà. Fu il disastro. Vide che, in nome di leggi che lui comprendeva meno del cinese, gli uni condannavano quello che altri approvavano; si smarrì nella foresta inestricabile dei giudizi letterari; perse completamente la testa; mio Dio! era dunque necessario rispondere a tante obiezioni quando si scriveva, soddisfare tante esigenze molteplici e contraddittorie! Poi, per sua sfortuna, si mise a leggere i libri eruditi in cui si analizza l'azione dello scrivere, tutti i meccanismi complessi del processo della creazione; e, allora, si trovò nella situazione di chi, nel momento in cui sta per compiere un gesto insignificante, volesse ricercare tutte le minime componenti della sua volontà di agire e restava inebetito, sconcertato di fronte al suo foglio di carta ostinatamente bianco. Allora alzava gli occhi, vedeva davanti a sé la distanza della campagna e scappava lontano dalla scienza degli uomini."
(**)
(I. Némirovsky, Un bambino prodigio)



(*) il titolo è di una canzone
(**)questo era il brano di cui parlavo l'altro giorno..

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