Non sono passati cinque minuti che hai già un groppo alla pancia insostenibile. Non sono passate un cinquantina di righe che ti chiedi se è il momento di affrontare anche una cosa così. Pensi a quel sasso, a quel sasso nella tasca. Alle parole di un biglietto troppo crudele, ma al tempo stesso troppo dolce, intimo e complice da non lacerare al centro chi lo riceve proprio con la sua dolcezza, la sua intimità, la sua complicità. Vedi quel pilone del ponte e pensi a due occhi di vetro, al velo dell'acqua sopra quegli occhi. Pensi a come vedresti il mondo in quell'attimo lì. Per un istante folle vorresti viverlo quell'attimo lì. Un ponte da sotto, il velo dell'acqua che rende rarefatto tutto e la luce che piano piano si spegne. Per una frazione di secondo c'è solo la luce luminosissima che trapassa l'acqua e diventa raggio. Un momento di bellezza assoluta sul finale. Solo che il finale è il finale di una vita. Solo che quella vita non è stata finzione ma è stata una vita vera. Con un finale vero. E il finale è proprio quello lì.
Non sono passati cinque minuti che la lentezza ti ha avvolto, quell'incedere faticoso tra parole ricercatissime, immagini che si incastrano perfette ma complicate, personaggi di cui non riesci a tratteggiare i volti, ambienti e geografie di cui non riesci a limitare i confini. Poi ti accorgi che è proprio quella stessa lentezza che ti spinge, che ti trattiene e ti spinge. Quasi ti da slancio. A quel punto tutto diventa lentamente veloce. Una suggestione dopo l'altra, una parola dopo l'altra, un'immagine dopo l'altra. Ti ritrovi a pensare a un ramo, a delle rose gialle e a un tordo, a Londra in un momento di giugno, a una glassa con le briciole e alla N di Dan troppo vicina alle rose. Senti il disagio di una vita perfetta intorno a te. Di una vita che guardi da fuori e che non vuoi. Perché Laura sei tu e quella donna che si muove in schemi altrui ti mette l'angoscia. Ti senti urlare dentro. Senti il bisogno di provare. Di rifare la torta, di riglassarne la superficie, di preparare la cena. E poi senti l'urgenza di prendere la macchina, girare e girare e poi affittare una stanza d'albergo. Una stanza d'albergo per leggere, per dormire, per pensare, per essere te stessa e per due ore diventare una donna proibita al mondo intero.
Non sono passati cinque minuti che tutti i piani di un racconto talmente costruito e strutturato da sembrare di una spontaneità assoluta si spiegano lì davanti a te. Ti sorprendono. Ti fanno socchiudere le labbra di stupore. In sottofondo un libro e in superficie tre vite. In superficie tutti gli spessori e le sfumature della morte. Una morte che è dentro e fuori, una morte da cui non si può fuggire. In superficie tutti gli spessori e le sfumature dello scorrere del tempo. Uno scorrere del tempo che è dentro e fuori, uno scorrere del tempo da cui non si può fuggire. In sottofondo un libro, in superficie quattro vite. La quarta è la tua.
Alla fine ti resta la meraviglia per un finale perfetto e poi solo parole, suggestioni, colori, sensazioni. Avresti voglia di rileggerle al contrario per ritrovarle tutte lì, presenti. Parole, sensazioni che sono soltanto tue perché per una volta ti sei lasciata andare e ci hai accordato te stessa a quello strumento lì. Hai sentito risuonare note dentro di te, solo che sono note dolcemente stridenti. Di quelle note che il tuo orecchio non vorrebbe sentire ma che poi cerca, furiosamente quasi. Soltanto tu e la tua musica perfetta.
E ognuno in fondo, dove la trova, è giusto che cerchi la propria di musica. E ci venga a patti.
* Le ore / Michael Cunningham ; traduzione di Ivan Cotroneo. - Milano : Bompiani, 1999. - 169 p. - (Narratori stranieri Bompiani). - ISBN: 8845240975
1 commento:
Un commento straordinario per uno dei miei libri preferiti. Tanto che mi è venuta voglia di rileggermelo questo capolavoro, alla ricerca della musica perfetta :-)
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