martedì 10 giugno 2008

la sfida (vinta) di un'analfabeta



Sto un po' in ansia quando consegno per la prima volta il mio tema raffazzonato al professore di letteratura ungherese. Ha grosse sopracciglia nere, fa paura a tutti gli allievi.
- Kristof, si alzi.
Mi ridà il tema del giorno prima:
- Legga
Mi alzo, leggo. Mi vergogno. E' corto. Molto corto, troppo corto. Quando finisco , il professore dice alla classe:
- E' così che dovete imparare a scrivere. E' breve, conciso, essenziale. Però stia più attenta alla calligrafia, Kristof


Che aggiungere? Sicuramente sarebbe meglio non aggiungere niente. Tutto è un di più.
Questo è un libro piccolo piccolo, esile esile, ma breve, conciso ed essenziale. Dello stile non dico niente. Ha già detto tutto il professore. Il linguaggio limato e rilimato, la prosa asciuttissima, l'essenzialità della forma è il grande pregio di Agota Kristof. Mi soffermo solo un attimo sul contenuto.
Una vita intera ripercorsa in sole cinquantatre pagine. Brevissimi capitoli che son come brevissimi racconti, scritti con un linguaggio, un'espressività che evolve, che sembra crescere e maturare insieme alla protagonista. Da collante il leggere, lo scrivere, l'amore per la lettura, per le parole, per la lingua. Elemento focale la perdita della propria lingua e la difficoltà di acquisirne un'altra, di diventare padrona di una lingua, il francese, che però è e rimarrà lingua nemica (sta uccidendo la mia lingua materna).
Ma questo libro esile esile non è solo l'autobiografia di una scrittrice. Ha in realtà un respiro molto più ampio, ed è questo che alla fine incanta. L'analfabetismo di cui parla l'autrice è infatti quello tipico di chi si ritrova da adulto a non capire chi gli sta intorno, a non poter comunicare; di chi si ritrova davanti un figlio che parla una lingua diversa dalla sua, un figlio che è tuo figlio ma che è anche figlio di un mondo completamente diverso che ha basi e radici diverse; di chi per scelta o più spesso per costrizione ha dissotterato le proprie radici, per provare a piantarle altrove. Quanta terra, concime, acqua ci vogliono, quanto accudimento, quanta cura, quanto amore. Se si è fortunati, se si è seminato e concimato bene, la pianta riprenderà, sarà rigogliosa. Ma forse lo sarà sempre e solo esternamente, le radici chissà, non si vedono.

C'è un brano bellissimo (ma in realtà tutto il libro è un sapiente collage di brani bellissimi) che riporto qui di seguito perché mi ha particolarmente colpito per il suo rendere il deserto che, nonostante l'apparente benessere, talvolta un immigrato può provare intorno a sé. Da leggere e soprattutto da ricordare quando serve.

Siamo una decina di ungheresi a lavorare nella fabbrica. Ci ritroviamo alla mensa durante la pausa di mezzogiorno, ma il cibo è così diverso da quello a cui siamo abituati che non mangiamo quasi niente. Da parte mia, per almeno un anno a pranzo non prendo altro che un po' di pane e caffellatte.
Nella fabbrica tutti ci trattano bene. Ci sorridono, ci parlano, ma noi non capiamo niente.
E' qui che comincia il deserto. Deserto sociale, deserto culturale. All'esaltazione dei giorni della rivoluzione e della fuga subentra il silenzio, il vuoto, la nostalgia dei giorni in cui avevamo l'impressione di partecipare a qualcosa di importante, forse anche di storico, la malinconia di casa, la mancanza della famiglia e degli amici.
Ci aspettavamo qualcosa venendo qui. Non sapevamo che cosa ci aspettavamo, ma certo non questo: queste grigie giornate di lavoro, queste serate silenziose, questa vita contratta, senza cambiamenti, senza sorprese, senza speranza.
Dal profilo materiale si vive un po' meglio di prima. Abbiamo due camere al posto di una. Abbiamo abbastanza carbone e cibo a sufficienza. Ma rispetto a quel che abbiamo perduto, è un prezzo troppo alto.
Nell'autobus del mattino, il controllore si siede vicino a me, la mattina è sempre lo stesso, un tipo grosso e gioviale, mi parla per tutto il tragitto. Non è che lo capisca molto bene, capisco però che vuole rassicurarmi spiegandomi che gli svizzeri non permetteranno mai che i russi giungano fin qui. Dice che non devo più avere paura, non devo più essere triste, adesso sono al sicuro. Sorrido, non posso dirgli che non ho paura dei russi, e che, se sono triste, è piuttosto per la grande sicurezza attuale, e perché non c'è nient'altro da fare e da pensare che il lavoro, la fabbrica, la spesa, il bucato, cucinare, e non c'è altro da spettarsi che le domeniche per dormire e sognare un po' più a lungo del mio paese.
Come spiegargli, senza offenderlo, e con le poche parole che so di francese, che il suo bel paese non è altro che un deserto, per noi rifugiati, un deserto che dobbiamo attraversare per giungere a quella che chiamano «l'integrazione», «l'assimilazione». In quel momento lì non sapevo ancora che certi non ce l'avrebbero fatta.
Due di noi sono ritornati in Ungheria nonostante la condanna alla prigione che li aspettava. Due altri, uomini giovani e celibi, sono andati più lontano, negli Stati Uniti, in Canada. Altri quattro, ancora più lontano, nel posto più lontano di tutti, oltre la grande frontiera. Queste quattro persone di mia conoscenza si sono uccise durante i primi due anni del nostro esilio. Una con i sonniferi, una con il gas, le altre due impiccandosi. La più giovane aveva diciotto anni. Si chiamava Gisèle.
(pp. 42-44)

... mi sa che stanotte me lo rileggo :)

L'analfabeta : racconto autobiografico / Agota Kristof ; traduzione di Letizia Bolzani. - Bellinzona : Casagrande, c2005. - 53 p. - (Scrittori). - ISBN: 8877134267

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