martedì 15 aprile 2014

conosco un posto nel mio cuore

“Guidavo per tornare a casa e sentivo che non poteva succedermi niente di male, perché tutto l’amore è negli alberi, e ne esiste una riserva infinita, se soltanto si trova il coraggio di sollevare lo sguardo e perdersi nell’intrico delle cose che si rimandano l’una all’altra, senza confini.”
(A. De Roma, La mia maledizione, Torino 2014, p. 156)

Era un po' di tempo che volevo scrivere questo post solo che non riuscivo a trovare il filo del pensiero giusto per iniziare. Più che altro a trovare un attimo di armonia mia che mi permettesse di guardarmi dentro senza correre il rischio di perdermi. Poi l'altro giorno ero in macchina e dalla radio è partita una canzone, una gran bella canzone. L'ascoltavo e cantavo - conosco un posto nel mio cuore dove tira sempre il vento per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento non c'è niente da capire, basta sedersi ed ascoltare - e mi si è fermato qualcosa. Su quel vento nel cuore, sul sedersi e ascoltare ho ri-pensato al libro della Mitia e ho capito che forse era arrivato il momento giusto. È stato un lampo e mi è venuto in mente Alberto, l'olmo che di notte si fa umano e va a ascoltare i racconti delle persone, i loro sogni, i loro pensieri. E mentre canticchiavo ho sorriso all'idea di una leggenda che non conoscevo minimamente ma che mi è sembrata da subito grandiosamente bella. Ho pensato che è bello quel libro lì, che è bella l'idea di mettere insieme storie diversissime, spesso anche molto dolorose e legarle con un filo tanto leggero quanto resistente rappresentato da un albero che ascolta di notte i pensieri e i sogni di un gruppo di persone. Tanti racconti più o meno separati tenuti insieme da un albero ascoltatore e da una stessa esperienza comune. Ho pensato a quante volte ci troviamo in mezzo a persone più o meno sconosciute con in testa soltanto i nostri pensieri; in mezzo a altri ma senza riuscire a avere la percezione di ciò che ci circonda, un po' come accade ai personaggi del libro che nonostante siano tutti alla stessa fermata e tutti in attesa dello stesso autobus sono talmente presi da loro stessi da non vederlo neanche passare. Ho pensato a quante volte mi sarà successo di non accorgermi di qualcosa e di deludere qualcuno, presa come ero dalla circolarità dei miei pensieri, delle mie emozioni, dalla tirannia dei miei pensieri e delle mie emozioni, tristi o felici non importa: un po' come la delusione dell'autista dell'autobus che è pronto a mostrare a tutti il suo orologio nuovo e a raccontare le novità belle della sua vita e li vede rimanere fermi completamente disinteressati a lui, completamente assorti, immobili. Ho pensato che forse ci voleva anche a me un albero, proprio come nella storia, un olmo dei sogni, per reintrodurmi nuovamente in un contesto, per farmi vedere le cose dall'alto senza l'obbligo di viverle in prima persona, senza la pesantezza di doverle vivere sempre in prima persona. Per farmi nuovamente sentire che sì ci sono io, ma che c'è anche un mondo intorno, un mondo fatto di storie che hanno solo voglia di essere scoperte. Ho pensato che ci voleva un albero, un olmo dei sogni, a farmi sentire per l'ennesima volta che è necessaria un'alternanza: a volte si sta sul palcoscenico, a volte si sta in platea e si guarda, a volte si sta dietro le quinte e si fa il tifo e a volte si sta nella buca del suggeritore sperando di dare il suggerimento giusto. Ho pensato a quante piccole sensazioni si provano leggendo queste pagine. Alla percezione delle proprie mani e delle proprie braccia, nel momento esatto in cui i rami di Alberto si fanno braccia e mani di corteccia, nel momento esatto in cui la sua linfa si fa sangue. Alla percezione delle proprie gambe nel momento esatto in cui Alberto libera le sue radici e si muove, acquistando una leggerezza sconosciuta. Alla percezione dello sfiorarsi della pelle quando Alberto si mette accanto alla ragazza dalla castagna matta, al ricercare quel minimo tocco, quel tocco assolutamente impercettibile e magico che fa la differenza tra dare la mano a qualcuno e innamorarsi. Due cose mi ha lasciato questa lettura, o forse me le ha fatte ritrovare: la bellezza di ascoltare e l'importanza di staccarsi, di dare una prospettiva, di vedere le cose al di fuori di sé. A ben pensarci mi ha fatto ritrovare due cose grandi, in un periodo in cui ero troppo presa da farmi ascoltare e troppo presa da tenermi sempre al centro delle situazioni.
Concludo dicendo un'ultima cosa. Alcune storie sono tristi, alcune molto tristi, ma io in questo libro ci sento la felicità. La felicità di averlo scritto, l'entusiasmo, la contentezza di aver messo un punto e di essere andati a capo. Ci sento la voce cristallina e molto ragazzina della sua autrice e la sua risata, che se non l'avete mai sentita mi dispiace per voi. Mi ricordo di averlo iniziato e dopo un po' di aver preso il telefono per mandare un messaggio alla Mitia, credo che il telefono facesse le scintille da come mi sentivo. Lei di sicuro se lo ricorda. Mi sono sentita felice per lei e forse anche un po' per me perché davvero ci sono delle contentezze che contagiano. Era dicembre e ora è aprile. Ci ho messo tanto a scriverlo questo post, spero che capisca. In questo periodo, forse, ho ascoltato un po' troppo me stessa.

* La castagna matta / Mitia Chiarin ; con una prefazione di Stefano Pallaroni. - Pavia : Blonk, 2013. - 1 ebook

1 commento:

fatacarabina ha detto...

sei un tesoro, mi hai commossa :)