giovedì 4 ottobre 2007

G. Celati: I lettori di libri sono sempre più falsi (8 puntata)

[SEGUE]
Alla fine d'ottobre la donna ha trovato casa in un quartiere non periferico, ma l'appartamento non era ancora pronto e avrebbe dovuto aspettare ancora un mese prima di entrarci. Nel frattempo, con le prime piogge d'autunno è rispuntato l'ingenere,andandola a prendere all'uscita del lavoro. Questo sarà il loro ultimo incontro.
Adesso li vediamo piantati nel bel mezzo d'un vasto piazzale, all'ombra di tre palazzi a forma di parallelepipedi contro il cielo, dove infinite finestrelle non apribili compongono le superfici liscie e lustre degli incombenti edifici. L'individuo baffuto si avvicina alla donna, e sussurra con fare guardingo: "Voglio passare dalla vostra parte. Le deve ascoltare cosa ho da dirle su quel libro che ho letto. L'ho già letto tre volte. Devo parlare assolutamente con lei."
La donna gli fa presente: "Ingegnere, io non ne posso più di lei, se ne renda conto."
L'uomo rimane interdetto, e dopo una pausa comincia a dire: "Io sono abituato a parlare chiaro con i miei clienti, perché so che sono semplici e non falsi."
La donna l'interrompe: "Se viene a cercarmi un'altra volta io telefono a sua moglie."
Continua però l'ingegnere, sotto i palazzi pieni di inapribili finestrelle: "Ma voi lettori di libri siete ben strani! Certo che vi prendete tutti per chissà chi. E vi nascondete nel riserbo dell'incapacità di accettare qualcuno, oppure parlate senza parlare a nessuno. Ho anche notato che raramente riuscite a guardare un altro negli occhi. Signorina Virginia, perché?"
Quest'ultima domanda è rivolta alla signorina Virginia già lontana nel vasto piazzale, ma lei non la ode e quindi è come se l'uomo non avesse detto niente.
Già lontana lei rimuginava su tutte quelle richieste d'attenzione che le fanno sempre lo studente e l'uomo baffuto, ed ha cominciato a parlarsi da sola.
Un'ora dopo camminava per una strada piena di vetrine, e si accorgeva che anche le parole della pubblicità, sui muri, nei cartelloni, nei negozi, le facevano sempre richieste d'attenzione. Sembrava che tutte ammiccassero, ma diversamente da quelle dei libri, perché non davano trepidazione. Erano lì soltanto a dire: "Tu mi capisci, eh?"
Camminando più in fretta aveva l'impressione che anche i neon delle vetrine ammiccassero, sempre per richiamare la sua ttenzione. E ammiccavano anche i vestiti della gente, le pettinature, gli orologi, i giubbotti di plastica variopinti, dicendo sempre la stessa cosa: "Tu mi capisci, eh?"
Anche guardando le mosse della gente, credeva di vedere qualcosa. Le occhiate che si scambiavano, il tipo di andatura che assumevano, il loro volgersi cercando qualcosa con gli occhi nelle vetrine, erano sempre mosse per dire la stessa cosa. Dicevano tutti: "Tu mi capisci, eh?"
Tutto questo parlare attorno con mosse e ammiccamenti non era diverso dal suo parlarsi da sola, soltanto ch'era una cosa più grande. Quella strada era come una grande mente dove vagavano parole e pensieri di ombre, ma dove le ombre in giro sembrava si vergognassero d'esser ombre, e allora facevano sempre richieste d'attenzione per non essere prese per ombre, e tutti si prendevano a vicenda per qualcos'altro.
Quelle ombre che si vergognavano d'esser ombre si affollavano in un minuscolo luogo, una strada, con attorno spazi immensi che sfuggivano all'infinito. E in quel luogo c'era nell'aria una polvere che s'insinuava in qualsiasi angolo, ricopriva tutte le ombre e gli oggetti, si depositava sui neon e sulle vetrine. Era quella una strana polvere, che rendeva stupido tutto ciò che toccava, e che niente poteva arrestare, perché si sa che la polvere si ficca in tutti i buchi.
Nella sua visione la giovane donna aveva il pensiero che quella polevere facesse parte del suolo, fosse soltanto la qualità greve della terra, sollevatasi per il vento a formare un polverone che avvolgeva le ombre con una stupidità greve, o uno stupore ottuso d'esser ombre.
Ma allora, perché tutte quelle richieste d'attenzione che le ombre rivolgevano sempre in giro? Perché tutto quell'ammiccare senza trepidazione, nelle loro parole e mosse?
A questo punto s'è resa conto che i passanti si voltavano a guardarla, perché lei stava parlando da sola ad alta voce. S'è sentita impacciata, ma subito dopo la cosa non le dava più fastidio, perché aveva in mente: "Tanto, forse tutto quello che succede è sbagliato."

Una mattina in ufficio ha sentito dire che l'ingegnere baffuto era morto. S'era scontrato ad un incrocio a Lambrate, guidando a tutta velocità. Nell'ufficio i suoi colleghi dicevano che l'ingegnere di recente era molto cambiato, trascurava gli affari, s'era anche messo a leggere libri, e scocciava tutti volendone parlare, Poveretto, era stato venditore e un direttore d'agenzia così bravo! Chissà cosa gli era successo.
Appena tornata a casa, la donna ha cominciato a sbarazzarsi di tutti i suoi libri, portandoli per strada e abbandonandoli davanti ad un bidone della spazzatura. Ha fatto vari viaggi in ascensore, su e giù per quel palazzo che sembrava sempre spopolato, e a mezzanotte s'era liberata di tutta la carta stampata che aveva in casa.
Da quando le parole e le frasi dei libri non la inquietavano più come film di fantasmi, perché lei aveva imparato a cedere alle trepidazioni, le sembrava di vedere in quei segnetti neri qualcosa di ancora più inquietante.
Come le accadeva con le scritte per strada e i cartelli stradali visti di sfuggita, così credeva di scorgere nelle linee stampate qualcosa di incerto e indistinto: come un muto apparire contro cui le parole di agitavano.
Le sembrava che le parole scritte, e le parole in generale, lanciassero sempre segnali per attirare l'attenzione, con i più strani ammiccamenti. Ma era come se ammiccassero per dire: "Ascolta che adesso ti dico qualcosa," per poi non dire niente e solo per sbarrare il passo ad una apparenza estranea e senza facoltà di parola che spuntava là fuori.
Una volta le è venuto in mente che tutte le frasi dei libri e dei giornali e delle insegne pubblicitarie avessero solo questo scopo: di evitare che quel muto apparire si presentasse, e allontanare l'imbarazzo che il suo pensiero procura.
In ascensore al mattino, salendo in ufficio, si trovava faccia a faccia con persone che conosceva o non conosceva. Anche lì, quando quel muto apparire spuntava nel silenzio di qualche secondo e negli sguardi che s'incrociavano per caso, subito le frasi accorrevano per sbarrare il passo a quella minaccia: "Come va?", "Fa caldo oggi!", "Hai visto la partita in TV?"
In ufficio restava ad osservare uomini e donne che discutevano, e notava come muovessero sempre mani e braccia per mostrare che discutevano. Cosa dicevano? Sempre cose che gli altri sapevano già. Ma per ognuno sembrava fosse molto importante pronunciare delle frasi e mostrare di voler dire qualcosa, per poi non dire niente, o soltanto richiamare l'attenzione altrui sul fatto che lui stava parlando. Talvolta le persone che osservava fingevano di esprimere sorpresa, e qualcuno mostrava che non c'era niente di cui sorprendersi. Altre volte facevano finta di esprimere dolore, e qualcuno faceva le mosse di interessarsi al dolore. Erano sempre intenti a mostrare di esprimere qualcosa, per bloccare ogni muta apparenza.
Adesso parlandosi da sola nel lontano quartiere periferico, le sembrava che i libri l'avessero portata a farsi troppe idee, e che ogni trepidazione le mettesse altre idee per la testa, e che avere tante idee per la testa fosse una disgrazia.
In ufficio ormai riusciva a vedere soltanto quella messinscena delle frasi scambiate per tacitare il pensiero imbarazzante, ed evitare che l'apparenza estranea si presentasse. Allora per calmarsi si metteva a masticare alacremente una striscia di chewing-gume diceva a se stessa. "Loro sono gli altri." E pensava anche: "Chissà in che film sono, loro."
Alla fine di novembre ha traslocato, ed è entrata in una casa vuota e rimessa a nuovo, dove non c'era un solo libro e niente che le ricordasse quella messinscena che vedeva negli altri. Eppure la cosa estranea era là, nella muta superficie dei muri, nelle finestre dipinte color malva, o negli angoli stranamente ottusi del corridoio. Lei doveva parlarsi da sola e cercar d'essere lieta, davanti a quel muto apparire che la osservava là fuori ogni momento.
Soltanto un vechhio lampione nel parco di fronte, quando si accendeva al tramonto, la confortava salutandola con un gesto magnanimo: "Salve! Anche stasera siamo qua."
[CONTINUA]

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