[SEGUE]
Mi vennero raccontate moltissime storie: a quanto pareva, tutti i cinquanta abitatori della miniera avevano reagito fra loro, a due a due, come nel calcolo combinatorio; voglio dire, ognuno con tutti gli altri, ed in specie ogni uomo con tutte le donne, zitelle o maritate, ed ogni donna con tutti gli uomini. Bastava scegliere due nomi a caso, meglio si di sesso diverso, e chiedere a un terzo: «Che c'è stato fra loro?», ed ecco, mi veniva dipanata una splendida storia, poiché ognuno conosceva la storia di tutti. Non è chiaro perché queste vicende, spesso intricate e sempre intime, le raccontassero con tanta facilità proprio a me, che invece non potevo raccontare nulla a nessuno, neppure il mio vero nome; ma pare che questo sia il mio pianeta (e non me ne lamento affatto): io sono uno a cui molte cose vengono raccontate.
Registrai, in diverse varianti, una saga remota, risalente ad un'epoca ancora di molto anteriore allo stesso Signor Pistamiglio: c'era stato un tempo in cui, negli uffici della miniera, era prevalso un regime da Gomorra. In quella leggendaria stagione, ogni sera, quando suonava la sirena delle cinque e mezza, nessuno degli impiegati andava a casa. A quel segnale, di fra le scrivanie scaturivano liquori e materassi, e si scatenava un'orgia che avvolgeva tutto e tutti, giovani dattilografe implumi e contabili stempiati, dal direttore di allora giù giù fino agli uscieri invalidi civili: il triste rondò delle scartoffie minerarie cedeva il campo ad un tratto, ogni sera, ad una sterminata fornicazione interclassista, pubblica e variamente intrecciata. Nessun superstite era sopravvissuto fino al nostro tempo, a portare testimonianza diretta: una sequenza di bilanci disastrosi aveva costretto l'Amministrazione di Milano ad un intervento drastico e purificatore. Nessuno, salvo la Signora Bortolasso, che, mi assicurò, sapeva tutto, aveva visto tutto, ma non parlava per la sua pudicizia estrema.
La Signora Bortolasso, del resto, non parlava mai con nessuno, salvo che per strette necessità di lavoro. Prima di chiamarsi così, si era chiamata la Gina delle Benne: a diciannove anni, già dattilografa negli uffici, si era innamorata di un giovane minatore smilzo e fulvo, che, senza ricambiarlo propriamente, mostrava tuttavia di accettare questo amore; ma «i suoi di lei» erano stati irremovibili. Avevano speso soldi per i suoi studi, e lei doveva mostrare gratitudine, fare un buon matrimonio, e non mettersi col primo venuto; ed anzi, poiché la ragazza queste cose non le intendeva, ci avrebbero pensato loro; che la piantasse col suo pelo rosso, oppure via di casa e via dalla miniera.
La Gina si era disposta ad aspettare i ventun anni (non gliene mancavano che due): ma il rosso non aspettò lei. Si fece vedere di domenica con un'altra donna, poi con una terza, e finì con lo sposarne una quarta. La Gina prese allora una decisione crudele: se non aveva potuto legare a sé l'uomo di cui le importava, l'unico, ebbene, non sarebbe stata di nessun altro. Monaca no, era di idee moderne: ma si sarebbe vietato per sempre il matrimonio in un modo raffinato e spietato, e cioè sposandosi. Era ormai un'impiegata di concetto, necessaria all'Amministrazione, dotata di una memoria di ferro e di una diligenza proverbiale: e fece sapere a tutti, ai genitori ed ai superiori, che intendeva sposare Bortolasso, lo scemo della miniera.
Questo Bortolasso era un manovale di mezz'età, forte come un mulo e sporco come un verro. Non doveva essere uno scemo puro: è più probabile che appartenesse a quel tipo umano di cui si dice in Piemonte che fanno i folli per non pagare il sale: al riparo dietro l'immunità che si concede ai deboli di mente, Bortolasso esercitava con negligenza estrema la funzione di giardiniere. Con una negligenza tale da sconfinare in un'astuzia rudimentale: sta bene, il mondo lo aveva dichiarato irresponsabile, ed ora doveva sopportarlo come tale, anzi mantenerlo ed avere cura di lui.
L'amianto bagnato dalla pioggia si estrae male, perciò il pluviometro, alla miniera, era molto importante: stava in mezzo ad un'aiuola, ed il Direttore stesso ne rilevava le indicazioni. Bortolasso, che ogni mattina innaffiava le aiuole, prese l'abitudine di innaffiare anche il pluviometro, inquinando severamente i dati dei costi d'estrazione; il Direttore (non subito) se ne accorse, e gli impose di smetterla. «Allora gli piace asciutto», ragionò Bortolasso: e dopo ogni pioggia andava ad aprire la valvola di fondo dello strumento.
Al tempo del mio arrivo la situazione si era stabilizzata da un pezzo. La Gina, ormai Signora Bortolasso, era sui trentacinque anni: la modesta bellezza del suo viso si era irrigidita e fissata in una maschera tesa e pronta, e recava manifesto lo stigma della verginità protratta. Perché vergine era rimasta: tutti lo sapevano perché Bortolasso lo raccontava a tutti. Questi erano stati i patti, al tempo del matrimonio; lui li aveva accettati, anche se poi, quasi tutte le notti, aveva cercato di violare il letto della donna. Ma lei si era difesa furiosamente, ed ancora si difendeva: mai e poi mai un uomo, e meno che tutti quello, avrebbe potuto toccarla.
Queste battaglie notturne fra i tristi coniugi erano diventate la favola della miniera, ed una delle sue poche attrazioni. In una delle prime notti tiepide, un gruppo di aficionados mi invitarono ad andare con loro per sentire che cosa capitava. Io rifiutai, e loro tornarono delusi poco dopo: si udiva solo un trombone che suonava Faccetta Nera. Mi spiegarono che qualche volta succedeva; lui era uno scemo musicale, e si sfogava così.
[CONTINUA]
da: P. Levi, Il sistema periodico
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