[SEGUE]
Del mio lavoro mi innamorai fin dal primo giorno, benché non si trattasse d'altro, in quella fase, che di analisi quantitative su campioni di roccia: attacco con acido fluoridrico, giù il ferro con ammoniaca, giù il nichel (quanto poco! un pizzico di sedimento rosa) con dimetilgliossima, giù il magnesio con fosfato, sempre uguale, tutti i santi giorni; in sé, non era molto stimolante. Ma stimolante e nuova era un'altra sensazione: il campione da analizzare non era più un'anonima polverina manufatta, un quiz materializzato; era un pezzo di roccia, viscera della terra, strappata alla terra per forza di mine: e sui dati delle analisi giornaliere nasceva a poco a poco una mappa, il ritratto delle vene sotterranee. Per la prima volta dopo diciassette anni di carriera scolastica, di aoristi e di guerre del Peloponneso, le cose imparate incominciavano dunque a servirmi. L'analisi quantitativa, così avara di emozioni, greve come il granito, diventava viva, vera, utile, inserita in un'opera seria e concreta. Serviva: era inquadrata in un piano, una tessera di un mosaico. Il metodo analitico che seguivo non era più un dogma libresco, veniva ricolladuto ogni giorno, poteva essere affinato, reso conforme ai nostri scopi, con un gioco sottile di ragione, di prove e di errori. Sbagliare non era più un infortunio vagamente comico, che ti guasta un esame o ti abbassa un voto: sbagliare era come quando si va su una roccia, un misurarsi, un accorgersi, uno scalino in su, che ti rende più valente e più adatto.
[CONTINUA]
da: P. Levi, Il sistema periodico
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